I recenti eventi di guerra che hanno visto coinvolte le forze dell’autoproclamato Stato Islamico hanno avuto risonanza globale grazie alla diffusione di immagini attraverso i media. Uno degli elementi che colpiscono maggiormente dei messaggi, diffusi dai militanti del Califfato attraverso i social network, è la grande cura per i dettagli e per lo stile comunicativo con cui immagini cruente vengono combinate a formare una sequenza che si avvicina molto ai codici della cinematografia hollywoodiana e delle serie televisive più in voga in Occidente. I destinatari dei contenuti di messaggi sono molteplici. Da un lato il nemico occidentale viene coinvolto in maniera diretta, attraverso la riproduzione sullo schermo di elementi che egli ben conosce e che toccano i recessi più oscuri della sua immaginazione (ad esempio il boia vestito di nero e con il volto coperto, ma con elementi propri dell’uomo occidentale; il condannato che indossa una divisa arancione, simile a quella del tristemente famoso carcere di Guantanamo; le parate di soldati del Califfato, che richiamano in certa misura quelle che avevano luogo in Occidente negli anni dei totalitarismi). In secondo luogo, certamente, i potenziali proseliti, particolarmente giovani occidentali che finiscono per arruolarsi in contingenti di foreign fighters integrati nelle fila dell’esercito del Califfato. Infine, come sottolineato dal Professor Paolo Fabbri nell’intervista pubblicata su questo numero di Leussein e curata da Pierluigi Cervelli, vi è anche un aspetto di concorrenza con altri gruppi terroristici: mostrando un alto grado di crudeltà ed efferatezza inserite in un quadro comunicativo di grande impatto, il “brand” del Califfato cerca di prevalere sul mercato delle ideologie armate.
Le immagini di combattimento e di guerrieri dall’antichità ai giorni nostri sono state un potente mezzo di (auto)rappresentazione di popoli e culture. Tali raffigurazioni erano concepite per dialogare con coloro che facevano parte della medesima realtà (culturale, politica, ecc…) che le aveva prodotte, ma potevano servire anche da strumento di comunicazione rivolto agli estranei (nemici e non). Numerosissime sono le immagini di guerrieri e le scene di combattimento provenienti dall’antica Grecia. In un mondo in cui la guerra era parte integrante della vita e dell’esperienza dell’uomo, queste raffigurazioni potevano assumere significati diversi. Ne parliamo con il Professor Hans van Wees, Grote Professor di Storia antica presso l’University College di Londra.
D. Professor van Wees, per prima cosa la ringrazio per la sua disponibilità a intervenire in questo numero della rivista Leussein. All’inizio di questa intervista vorrei rivolgere l’attenzione alle ceramiche dipinte con scene di guerra prodotte dagli artigiani dell’antica Grecia. Tali ceramiche erano utilizzate dai membri delle classi più agiate in momenti chiave della propria vita sociale, come il simposio. Quali contenuti potevano avere queste raffigurazioni? È possibile che esse suscitassero reazioni diverse fra coloro che avevano avuto esperienza di guerra e chi ancora ne era privo?
R. Credo che sia vero che le immagini di guerra esercitano effetti diversi su coloro che hanno avuto esperienza personale di combattimento o di altre forme di violenza, rispetto a quanti non hanno mai sperimentato una tale realtà. È vero anche che un uomo greco che vedeva dipinte su vari oggetti ceramici scene di guerra, generalmente aveva già avuto esperienza in ambito militare o comunque l’avrebbe avuta nel futuro. Bisogna tenere presente, tuttavia, il fatto che persone prive di esperienza di guerra non sempre provano orrore nel vedere immagini di violenza e, viceversa, non sempre coloro che hanno prestato servizio come soldati guardano a tali rappresentazioni con identificazione ed empatia. Alcune immagini di violenza particolarmente esplicite e “reali” di sicuro dovevano sembrare raccapriccianti anche per soldati esperti e alcune rappresentazioni stilizzate e non realistiche di violenza potevano essere piuttosto piacevoli per chi le vedeva, come accade oggi in alcuni videogiochi e film.
Gran parte delle rappresentazioni di guerra e violenza sulla ceramica dipinta greca ricadono presumibilmente nella categoria delle non realistiche. Si tratta in genere di scene di combattimento piuttosto pulite, “filtrate”, con poche tracce di sangue, ferite, armi spezzate o corazze rotte. Molte di esse mostrano uomini che brandiscono le proprie armi, ma non sono ancora impegnati nel vero e proprio combattimento. Inoltre in molti casi vengono rappresentate scene tratte dal mito e dalle leggende di eroi, che potevano creare una certa distanza tra la scena stessa e l’osservatore. Il divario fra l’immagine e l’esperienza dell’osservatore è particolarmente netto nel caso della pittura vascolare ateniese della metà del V secolo a.C., quando i pittori smisero del tutto di riprodurre sulle proprie ceramiche immagini di combattimento, nonostante in quegli anni la città avesse raggiunto un picco della propria attività militare.
D. Quale genere di “seduzione”, dunque, erano in grado di esercitare queste immagini sugli osservatori greci? Quali ideali trasmettevano?
R. In generale direi che la “seduzione” esercitata da molte, probabilmente dalla maggior parte delle pitture vascolari sia da ricollegare all’idealizzazione del soldato. L’osservatore in sostanza poteva vedere una versione ideale di se stesso in una serie di momenti cruciali durante una guerra: il prendere le armi; il saluto alla propria casa; l’inizio del combattimento; il recupero dei corpi dei compagni caduti; la vittoria sul nemico. Alla stessa maniera le pitture vascolari generalmente presentano una raffigurazione idealizzata del mangiare e del bere durante un simposio, di imprese sportive o di scene di caccia. Tutte queste riproduzioni coprono gli elementi chiave del modo di vivere di una élite.
Vi sono tuttavia immagini che presentano una versione meno filtrata della guerra, come anche del simposio, ed è più difficile comprendere quale “seduzione” possano avere esercitato sull’osservatore antico. Ad esempio, una scena di massacro durante il sacco di Troia era concepita per suscitare orrore nei confronti delle azioni dei soldati e pietà verso le vittime oppure puntava a generare entusiasmo e orgoglio nei confronti della forza dei Greci vincitori? Alla stessa maniera, certe rappresentazioni particolarmente esplicite di un simposio intendevano generare disgusto o ilarità in colui che le osservava? Dal momento che queste scene decoravano coppe utilizzate per bere e altro vasellame collegato al banchetto, mi risulta difficile credere che fossero concepite per generare orrore o disgusto e nemmeno, d’altro canto, per suscitare meditazione e riflessione (non molti symposia greci dovevano essere così filosofici come quelli descritti da Platone e Senofonte!). Piuttosto ho il sospetto che anche queste scene, che creano non pochi problemi ai moderni, fossero innanzitutto pensate come celebrazione di potenza in guerra e di ricchezza nel simposio. Penso anche, tuttavia, che ci fosse un certo tipo di reazione a tali brutali celebrazioni. Nell’arte e nella letteratura greche, dal tardo VI secolo a.C. in poi, possiamo vedere non solo la glorificazione dell’uso smodato della forza e del denaro, ma anche un’opposizione a tali immagini e comportamenti, che pone invece l’accento sulla moderazione e sull’autocontrollo come valori fondamentali. Potrebbe essere che questa contro-ideologia della misura fosse una delle ragioni principali per la scomparsa delle scene di combattimento dalla pittura vascolare ateniese dalla metà del V secolo a.C.
D. A questo proposito, a suo giudizio quale relazione potrebbe esservi stata fra questa scomparsa di immagini di combattimento dalla pittura vascolare ateniese intorno al 450 a.C. e il contemporaneo affermarsi della democrazia periclea?
R. Penso sicuramente che gli sviluppi nell’iconografia e nella politica abbiano un legame. Tuttavia non credo sia possibile collegare in maniera diretta la scomparsa delle scene di combattimento con la democrazia periclea. Entrambi questi fenomeni sono il risultato di tendenze di lungo termine verso un maggiore egalitarismo nella cultura e nella sfera politica. Tuttavia il cambiamento di motivi iconografici sui vasi era probabilmente il risultato di una crescente uguaglianza fra le classi agiate, mentre la caratteristica distintiva della democrazia periclea è quella di incoraggiare la partecipazione politica attiva anche da parte delle classi inferiori.
D. Cambiamo prospettiva e rivolgiamo l’attenzione al di fuori della Grecia. Il vasellame prodotto dagli artigiani era anche diffuso fra popolazioni non greche, penso particolarmente a quelle dell’Italia centro-meridionale, attraverso i commerci. Questi prodotti diventavano oggetti di uso quotidiano per le classi più agiate di questi popoli. Come potevano essere percepite le raffigurazioni di soldati greci presenti su queste ceramiche dagli osservatori non greci? È possibile che vi fosse, da parte dei Greci, l’intenzione di diffondere una specifica rappresentazione di se stessi?
R È difficile valutare in che modo le altre culture del Mediterraneo interpretassero le immagini sui vasi greci frutto d’importazione. In linea di principio esse dovevano risultare “esotiche” e potevano venire importate proprio per questa ragione. D’altro canto, però, avrebbe potuto esistere una sufficiente cultura comune fra molte delle civiltà del Mediterraneo, così che per molti non-Greci tali immagini su vasi greci potevano risultare piuttosto familiari. I più grandi importatori di vasellame greco erano gli Etruschi e sappiamo che anche loro usavano l’armamento oplitico e tenevano simposi. Vi erano differenze nei dettagli, certo, ma il quadro generale avrebbe potuto essere facilmente riconoscibile e, pertanto, non è detto che queste immagini suggerissero agli Etruschi una qualche diversità o superiorità dei Greci. Gli studiosi moderni pensano generalmente che l’oplita fosse un tipo di soldato caratteristico del mondo greco, ma Erodoto suggerisce che altre fanterie, come ad esempio quelle dei Lidi e dei Fenici, fossero equipaggiate esattamente alla stessa maniera degli opliti greci. Le immagini nell’arte lidia e fenicia in cui solitamente vengono identificati “opliti greci” (mercenari) potrebbero, in fin dei conti, rappresentare semplicemente la fanteria pesante locale. Penso dunque sia improbabile che la pittura vascolare greca arcaica fosse concepita per trasmettere una immagine distintiva dei Greci.
Le cose cambiarono, almeno fino a un certo punto, in età classica, dopo le Guerre Persiane, quando le immagini di Greci che sconfiggono il nemico persiano divennero popolari, ma chiaramente tali immagini non erano destinate al mercato persiano e, se avevano qualche valore propagandistico, certamente l’obiettivo era incoraggiare i Greci a credere nella propria superiorità.
È importante tenere a mente che il mezzo della pittura vascolare non si adattava bene a fini di propaganda. Innanzitutto non è universalmente riconosciuto che i vasi che venivano esportati fossero decorati in maniera specifica per il mercato di destinazione, anche se potrei seguire la posizione di Robin Osborne secondo cui comunemente, almeno in linea di principio, l’iconografia avrebbe potuto essere destinata a un pubblico di non-Greci. Tuttavia, anche se il target fosse stato questo, non possiamo comunque paragonare la pittura vascolare con il moderno linguaggio figurativo della propaganda. Dopotutto i vasi non mostrano solo uomini ed eroi greci in scene di combattimento, ma anche uomini che bevono e danzano e donne che tessono e che attingono acqua. La grande maggioranza delle raffigurazioni non aveva alcun valore propagandistico immediato. Inoltre i vasi erano prodotti da singoli artigiani e non dallo stato; pertanto non abbiamo ragione di pensare che vi fosse qualche tipo di controllo pubblico sulla scelta delle immagini da parte del pittore. Dal momento che i vasi erano venduti e non regalati, essi dovevano attirare il consumatore, il che suggerisce che i compratori non consideravano queste immagini come una glorificazione del nemico.
Infine, per quanto i vasi con scene di combattimento fossero venduti all’estero, non necessariamente essi venivano venduti in aree in cui la madrepatria dei produttori aveva interessi politici e militari. Fra il 550 e il 450 a.C., ad esempio, gli Ateniesi non avevano alcun interesse noto nel Mediterraneo occidentale, eppure un gran numero di vasi attici venne esportato in Italia, Sicilia e anche oltre. Pertanto è probabile che la pittura vascolare avesse un intento molto meno propagandistico rispetto alle sculture che decoravano i templi greci o altri edifici pubblici, monumenti o dediche. Questi ultimi erano certamente concepiti, fra le altre cose, per glorificare la città che li aveva costruiti e trasmettevano immagini controllate dalle autorità pubbliche. Il combattimento oplitico e altre forme di conflitto di certo apparivano in queste forme di arte pubblica, ma, per quanto ho potuto vedere, le raffigurazioni militari non sono prevalenti in questo contesto. Vittorie alate e quadrighe erano molto più comuni di opliti trionfanti come simbolo di vittoria nell’arte pubblica della Grecia classica.
D. Rivolgiamo ora l’attenzione all’aspetto esteriore del soldato greco e, in particolar modo, dell’oplita che scendeva sul campo di battaglia. Dalle fonti abbiamo varie testimonianze dell’impressione suscitata dalla comparsa di una schiera di opliti greci sugli stranieri, fossero essi nemici o alleati. Ad esempio ricordo il passo in cui Erodoto (II, 152) descrive l’impatto visivo ed emotivo generato nei nativi egiziani dall’apparire di “uomini di bronzo” provenienti dal mare, Ioni e Cari, sbarcati in Egitto e arruolati come mercenari al servizio del pretendente Psammetico. Inoltre la presenza nell’armamento dell’oplita di alcuni dettagli che non apportavano alcun vantaggio specifico nel combattimento, può essere spiegata come un tentativo di incrementare l’impressione suscitata dall’aspetto del soldato. Fino a che punto, dunque, l’immagine esteriore di un soldato greco, soprattutto di un oplita, era concepita per terrorizzare il nemico in battaglia?
R. Avere un aspetto terrificante era certamente importante per i soldati greci. Il lucente splendore dell’armatura di bronzo era inteso ad abbagliare e impressionare il nemico e può ben essere che per le corazze il bronzo fosse un materiale preferito al ferro (o anche al lino rinforzato in strati sovrapposti o alla pelle, che erano materiali parimenti efficaci nel proteggere il guerriero, pur risultando più leggeri) proprio per il suo impatto visivo. Alcune armature erano molto decorate così da aumentare l’effetto e la tipica lavorazione delle corazze, che riproduceva i muscoli pettorali e addominali, serviva certamente per il medesimo scopo. L’Iliade di Omero dice esplicitamente che l’ampia criniera di piume sulla cresta dell’elmo dei combattenti era concepita anche per essere spaventosa. La sottile lamina di bronzo che poteva ricoprire uno scudo oplitico non fornisce alcun vantaggio aggiuntivo per la protezione del guerriero rispetto all’anima lignea e senza dubbio serviva principalmente per completare l’aspetto abbagliante del resto della panoplia.
Sembra che i Greci concepissero l’effetto così ottenuto come una sorta di “tremenda bellezza” che intimidiva il nemico suggerendo un’eccellenza più che umana del soldato, piuttosto che spaventarlo con un aspetto demoniaco, mostruoso e inumano. Ma vi era anche un elemento di quest’ultimo genere nell’uso, ad esempio, di immagini di Gorgoni o serpenti per decorare scudi e armature: il nemico sarebbe infatti rimasto pietrificato dal loro sguardo. Nei Sette contro Tebe di Eschilo abbiamo notizia di straordinari effetti sonori prodotti per intimidire il nemico: si parla infatti di campane sonanti appese nella parte interna dello scudo di Tideo e di un meccanismo in grado di amplificare il suono di cavalli che soffiavano fieramente l’aria dalle narici. Tuttavia questi elementi non sono attestati altrove e il loro scopo nel dramma era specificatamente quello di spaventare le donne all’interno della città di Tebe, che potevano sentire il nemico, pur non vedendolo. Di norma, però, è l’elemento visivo più che il suono a risultare più efficace.
Ancora più importante dell’impatto visivo di un singolo soldato era quello di una schiera o di un intero esercito. Trasmettere un’immagine di ordine, coesione e sicurezza era, in tal caso, vitale. Già nell’Iliade i Troiani sono contrapposti ai Greci in una posizione sfavorevole in quanto essi si lanciano in avanti all’attacco in maniera caotica e con grande rumore, mentre i Greci procedono silenziosamente e mantenendo l’ordine. Fra i Greci d’età storica un’avanzata silenziosa e regolare era propria, a quanto pare, solamente degli Spartani, mentre gli altri correvano e lanciavano alto il grido di battaglia; tuttavia anche in quel caso si generava l’impressione che i Greci spaventassero i barbari grazie al loro sembrare ben ordinati rispetto al nemico. In un noto passo dell’Anabasi, Senofonte descrive come i diecimila mercenari greci furono in grado di atterrire il resto dell’esercito persiano di cui facevano parte solamente mettendo in scena una simulazione di una carica. Essi collocarono i loro uomini meglio armati nelle prime file, così da sembrare una linea ininterrotta di scudi di bronzo e tuniche cremisi e si sforzarono di mantenere questo allineamento anche quando ebbero iniziato a correre e a gridare. L’enfasi del racconto di Senofonte è fortemente incentrata sull’impatto visivo e sul piacere che derivò ai Greci dall’aver messo in allarme i non-Greci semplicemente per il fatto di avere un aspetto pericoloso.
D. Proprio Senofonte ricorda che Licurgo aveva imposto agli Spartani di indossare una stolé cremisi per risultare più virili e agguerriti in battaglia (Lac. Pol. 11, 3).
R. La necessità che i soldati spartani indossassero tuniche color cremisi (e non mantelli, come invece si pensa comunemente) e imbracciassero scudi con un rivestimento completo in bronzo era chiaramente ispirata dal medesimo desiderio di apparire impressionanti. È interessante notare che i capelli lunghi e pettinati in maniera elaborata e le barbe degli Spartani sono caratteristiche che vengono spiegate da alcune delle fonti a nostra disposizione anch’esse come concepite per far sembrare gli uomini più alti e più terrificanti.
Potrei aggiungere che i Greci, a loro volta, erano talvolta terrorizzati dalla comparsa dei barbari: sebbene in seguito si siano fatti beffe dei Persiani per il fatto che essi vestivano in maniera effemminata, con gambali e turbanti, Erodoto afferma che, inizialmente, i Greci trovavano la vista dei Persiani abbigliati in questa maniera particolarmente spaventosa e che gli Ateniesi a Maratona furono i primi a essere in grado di sopportare la vista delle vesti persiane e degli uomini che le indossavano (VI, 112). Anche in quest’ultimo caso viene comunque detto che un Ateniese, nel pieno della battaglia di Maratona, divenne d’un tratto cieco alla vista di un enorme soldato nemico la cui barba copriva interamente il suo scudo: si trattò evidentemente di una forma di cecità isterica e testimonia quale potenza poteva avere un aspetto fisico particolarmente spaventoso.
Hans van Wees è Grote Professor di Storia antica presso l’University College di Londra. Le sue principali aree di interesse e d’indagine sono la storia economica e sociale della Grecia arcaica, la guerra nel mondo greco arcaico e classico e l’uso comparato delle testimonianze iconografiche per lo studio dell’antica Grecia.
La sua produzione scientifica è ampia e comprende tre monografie:
- Status Warriors: War, Violence and Society in Homer and History, J. C. Gieben, Amsterdam 1992;
- Greek Warfare: Myths and Realities, Duckworth, London 2004 (trad. it. La guerra dei greci: miti e realtà, LEG, Gorizia 2009);
- Ships and Silver, Taxes and Tribute: A Fiscal History of Archaic Athens, I. B. Tauris, London – New York 2013.
Fra i volumi di cui ha curato l’edizione, si ricordano:
- E. J. Bakker, I. J. F. de Jong, H. van Wees (eds.), Brill’s Companion to Herodotus, Brill, Leiden 2002;
- P. Sabin, M. Whitby, H. van Wees (eds.), The Cambridge History of Greek and Roman Warfare. Volume 1, Greece, The Hellenistic World and the Rise of Rome, Cambridge University Press, Cambridge – New York 2007;
- P. Sabin, M. Whitby, H. van Wees (eds.), The Cambridge History of Greek and Roman Warfare. Volume 2, Rome, from the Late Republic to the Late Empire, Cambridge University Press, Cambridge – New York 2007;
- K. A. Raaflaub, H. van Wees (eds.), A Companion to Archaic Greece. Blackwell Companions to the Ancient World, Wiley Blackwell, Malden (MA) – Oxford – Chichester 2009;
- N. Fisher – H. van Wees (eds.), Competition in the Ancient World, Classical Press of Wales, Swansea 2010.
Hans van Wees è autore di numerosi articoli in riviste scientifiche internazionali e contributi in volumi. È Honorary Fellow presso l’Institute of Classics and Ancient History dell’University of Wales e corrispondente della Dutch Academy of Sciences.
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