L’eterno ritorno della tirannide. Dalla realtà analogica a quella virtuale

Sommario:

Ogni governo tirannico ha sempre preteso il controllo assoluto sin nelle stanze del privato e in questo senso appartiene ad una realtà storica primitiva, tribale e a-democratica. Si cercherà qui in prima istanza di analizzare i caratteri tribali e violenti delle vecchie e delle nuove comunità virtuali mostrando come il villaggio-Web, ancorché globale, lontano dalle dinamiche di un’autentica Polis democratica, non sia automaticamente libero e immune dai pericoli della tirannide e del totalitarismo. Si tratta di una riflessione sulle dinamiche educative e politiche che ruotano attorno alla consapevolezza che il villaggio globale, inteso come realtà iperconnessa, possa rivelarsi, al pari delle primitive realtà umane anteriori alla Polis, una realtà chiusa, a tratti tribale e a rischio tirannide digitale, con i nuovi provider (Facebook, Google, ecc.) che, come nuovi sovrani, autorizzano, determinano o negano l’esistenza altrui, determinando o negando la possibilità di una identità digitale: lo stare al mondo contemporaneo, infatti, coincide sempre più con lo stare in Rete e questo stare in Rete assomiglia talvolta alla condizione di una perpetua sottomissione ad un tiranno.

Abstract:

Each tyrannical government has always demanded absolute control, even upon private issues, and therefore it belongs to a primitive, tribal and non-democratic historic phase. We shall first analyse the violent, tribal character of the old and new virtual communities, showing how the village-Web, even if global, being far from the dynamics of a genuine democratic Polis, is not automatically free and exempt from the dangers of tyranny and totalitarianism. This is a reflection on the educational and political dynamics revolving around the awareness that the global village, meant as hyperconnected reality, may reveal itself, just as the primitive human realities antecedent to the Polis, a closed system, with tribal facets, and at risk of digital tyranny, where the new providers (Facebook, Google, etc.) as new rulers, allow, shape or deny other people’s existence, making or erasing the digital identity. In fact, contemporary life is more and more the same as a Web life, and the Web life increasingly appears as the condition of a perpetual submission to a tyrant.

1. Prodromi storici e metafisici della tirannide.

Racconta Cicerone che il tiranno Dionigi I di Siracusa aveva adibito una latomia come carcere per prigionieri politici1: questa grotta, simile ad un lungo e alto corridoio nella roccia adiacente al Teatro, sarà non a caso battezzato in seguito dal pittore Caravaggio Orecchio di Dionisio2 sia per la sua arcata esterna a forma di padiglione auricolare e sia perché il tiranno pare approfittasse dell’ottima acustica delle pareti per ascoltare i discorsi sediziosi dei prigionieri, individuando così quelli più pericolosi per poter procedere subito a sentenze capitali efficaci, esemplari e, soprattutto, tempestive.

Una leggenda più tarda, ma scarsamente documentata3, ci dice che il tiranno siracusano avesse anche l’anomala abitudine di graziare solo coloro che sapessero dare prova di recitare interamente una delle grandi tragedie del repertorio teatrale greco4: non sapremo mai quanto fossero colti e preparati i prigionieri rinchiusi nell’Orecchio di Dionisio, ma possiamo immaginare che, data l’altissima prestazione richiesta, alla fine fossero veramente in pochi a salvarsi.

Questi aneddoti mostrano alcune caratteristiche del prototipo del tiranno che verrà descritto da Diodoro Siculo5, da Aristotele6 e da Plutarco7 i quali si soffermeranno sulla figura di Dionigi come archetipo e «terribile ammonimento per i posteri8», insistendo su alcuni aspetti ricorrenti nell’ideal-tipo del tiranno in generale e del tiranno greco (o delle colonie greche) in particolare.

Questi particolari tipici della personalità del tiranno e che pare fossero presenti in Dionigi9, sono riconducibili ad un quadro d’insieme caratterizzato da atteggiamenti quali la paranoia che sfociava nel timore continuo di essere in pericolo e di essere potenziale vittima di complotti10 e la volontà di mettere in atto tecniche di sorveglianza continua e coatta dove ogni parola, anche detta a bassa a voce e in prigione, avrebbe potuto essere intercettata e diventare capo d’accusa. A questi si aggiunge l’ ansia di potere che sfociava nel desiderio di un monopolio sulla polis o su una regione intera: non a caso Platone11(nelle cui pagine tuttavia Karl Popper individuerà i prodromi di tutte le ideologie totalitarie12) assimilerà la figura del tiranno ad un animale feroce: «da buon cane pastore del popolo si trasforma in lupo spietato13» egli scrive nella Repubblica e con il lupo il tiranno condivide lo schema identitario che è fondato su una sostanziale privazione di libertà in senso metafisico ed esistenziale.

Entrambi (il tiranno e il lupo) sono infatti schiavi delle proprie paure e delle stesse bramosie: «chi è realmente tiranno è realmente schiavo14».

La schiavitù è reale, tangibile, riconducibile allo stile di vita («temere la folla ma temere anche la solitudine, temere di restare senza guardie e allo stesso tempo temere chi è di guardia, non desiderare di vedere intorno a sé persone armate ma neppure desiderare di vederle disarmate» dice il tiranno Ierone nella riflessione di Senofonte sulla tirannide15) ma è schiavitù anche impalpabile e morale: il tiranno, ricorda sempre Senofonte, vive (male, diremmo noi) «come se fosse stato condannato a morte dall’umanità intera a causa delle ingiustizie commesse, così vive il tiranno, notte e giorno16», e questa continua tensione accompagnata dalla pleonexia17, dall’eccesso, o dalla fame di eccesso, dalla fame di potere rappresentano il peccato originale della tirannide. Una miscela di paura e di ingordigia che inoculata lentamente, come un farmaco che si trasforma in veleno, viene lentamente assunta nell’organismo democratico che sembra allevare al suo interno il figlio massimamente degenere18: il popolo nutre il tiranno, scrive Platone, e «il popolo che ha generato il tiranno, poi manterrà lui e la sua corte19».

Si tratta di una consapevolezza che attiene la sostanza della materia politica, ovvero la sostanza della convivenza e della buona convivenza nella polis, ma attiene anche la forma, ovvero le parole, la nomenclatura diremmo: Platone è qui chiarissimo e descrive proprio questa degenerazione linguistica che permuta e muta sin nel nerbo e nei gangli le parole, inficiandone il significato, modificandole ed esautorandole di senso20. La mutazione politica dalla democrazia alla tirannide è mutazione che avviene all’inizio nell’ordine linguistico e successivamente nell’ordine fattuale delle cose e della realtà. Come una lenta mutazione genetica, diremmo: del resto se la democrazia coniuga il gesto politico con il gesto verbale, essendo l’arte del discorso21 e se, come scrive Gustavo Zagrebelsky, le parole della politica sono parole di per sé ambigue perché strumentali, in quanto parole del potere per il potere22, e dunque prestano il fianco ad ogni manipolazione, allora se seguiamo il deterioramento e lo sgretolamento del significato dei termini e dei concetti si può efficacemente registrare lo sgretolamento della democrazia e parimenti si può intravedere il suo lento scivolare nel totalitarismo.

Infatti, secondo Platone

quando la libertà diventa licenza, quando la tracotanza diventa buona educazione, quando l’anarchia viene detta libertà, la dissipazione del denaro pubblico viene detta liberalità e l’impudenza diventa coraggio23

allora la democrazia sfocia nella tirannide per un eccesso di bene e per un desiderio smodato, per una sete insaziabile di quel bene:

a mio giudizio quando uno Stato democratico, nella sua sete di libertà, si trova ad essere accudito da cattivi coppieri, bevendo di questa libertà allo stato puro e più del lecito, se ne ubriaca24.

La consapevolezza della potenziale degenerazione della libertà e del potere del popolo in schiavitù o in potere di uno solo, ovvero la consapevolezza di questo slittamento dalla democrazia alla tirannide, sembra sia appartenuta in particolare agli Ateniesi (maestri di democrazia25) i quali pare siano stati in grado di maturare (soprattutto dopo l’esperienza della tirannide dei Pisistratidi26) una vera e propria tirannofobia27nei confronti di quei politici che ostentavano atteggiamenti tali da suggerire quanto «ambissero alla tirannide»28: anche se consapevoli pragmaticamente che un eccesso di paura avrebbe potuto condurre a valutazioni errate (e un eccesso di paura nei confronti di un eventuale tiranno avrebbe potuto interrompere le sorti “magnifiche e progressive” della città) tuttavia gli Ateniesi preferivano correre il rischio di un eventuale svantaggio momentaneo della polis piuttosto che inciampare nella tirannide29. Essi avevano acquisito un vero e proprio “occhio clinico” nell’individuare, come un radar percepisce un lontano segnale luminoso, le avvisaglie di un atteggiamento politico potenzialmente incline alla tirannide: dell’uomo pubblico non si stancavano di analizzare ed interpretare gesti, comportamenti, atti verbali e non verbali, atteggiamenti e posture e persino intonazione del timbro e della voce30, con un’attenzione e un’ acribia che oggi, forse, potrebbero confrontarsi qualitativamente con ogni analisi politica o politologa svolta nei nostri rumorosi talk show e forse farebbero impallidire ogni nostrano interesse per il gossip. Ad esempio, sempre nel trattato sulla tirannide di Senofonte, il poeta Simonide, da privato cittadino, chiede al tiranno Ierone, come nel corso di un’intervista o di una diretta televisiva, quali siano le differenze tra un uomo qualunque e un tiranno, e l’indagine, che si dipana lungo tutto il trattato e che verte sugli aspetti caratteriali e sulle predisposizioni psicologiche, finisce col coinvolgere addirittura le predilezioni sessuali31, in un quadro d’insieme che, oggi come allora, veniva continuamente esposto al pubblico giudicante nelle vesti, di volta in volta, o di opinione pubblica o di spettatore.

Questo universo di significati e di significanti che avvolgono il tiranno e che vanno dal bisogno di essere sempre in guerra e di avere un nemico sino alla paura di perdere il potere e sino addirittura alla strenua difesa nei confronti dei poveri a danno dei ricchi (financo imitando i modi e l’abbigliamento del popolo32, sebbene si intravedesse già in questo una pericolosa demagogia33), rappresentava, nella riflessione filosofica e politica greca, una vera e propria specializzazione, un insieme di technai34, tra le quali spiccava e svettava l’adikia intesa non solo come dis-valore (l’ingiustizia) né come divinità (laddove l’immaginario mitologico greco concepiva Adikia come divinità orrenda, portatrice di inganno, errore e ingiustizia35 e non a caso sempre rappresentata nell’atto di venir strangolata dalla Giustizia, da Dike36) bensì come vera e propria tecnica37, un’arte della tirannide e della manipolazione (dei fatti e degli artefatti) e che conduce alla manutenzione del potere asimmetrico tra popolo e capo-popolo e fondato sulla prevaricazione perniciosa e sulla comunicazione perversa e alterata e alterante di quest’ultimo.

Anzi, anche quando il tiranno o i tiranni, con eloquenza magistrale, si schieravano a favore della virtù, della religione o della giustizia e dunque incitavano alla difesa di un patrimonio di valori comuni e condivisi (in questa direzione, ad esempio, i Pisistrati, anche al fine di mantenere saldo il proprio potere, pare alimentassero il culto emozionale e devozionale, talvolta superstizioso, del dio Dioniso38), la critica, soprattutto intellettuale e, diremmo oggi, elitaria, nonché minoritaria, non rinunciava ad esprimere la propria perplessità: nell’orazione Contro i tiranni39, di fronte agli ambiziosi intenti programmatici dei Trenta Tiranni, comunicati, diffusi e pare approvati e applauditi dall’Intelligencija greca40, compreso lo stesso Platone41, il retore Lisia scrive non senza una vena di sano scetticismo e ironia poi andarono al potere i Trenta… proclamando la necessità di far piazza pulita degli ingiusti e che tutti gli altri cittadini si volgessero al valore (areté) e alla giustizia (dikaiosyne)42.

In ogni caso, come si evince dalla visone espressa nella Repubblica, l’humus di ogni tirannide sembra essere la condizione dell’eccesso in tutte le direzioni: eccesso di indulgenza43, persino eccesso di libertà (una totale illegalità, scrive Platone, chiamata «dagli istigatori della tirannide totale libertà44»), o eccesso di servitù nei confronti di uno solo, addirittura eccesso di bellezza45, eccesso di passioni, persino eccesso di parole, eccesso di impunità laddove i giovani insultano i precettori e, diremmo addirittura, eccesso di diritti arbitrari46. In questo brodo di coltura maturano e proliferano gli agenti patogeni della tirannide che vanno ad attaccare l’organismo più esposto ovvero il popolo abbandonato alla ubris dissoluta e dissolutiva della demagogia.

Questa tracotanza (quasi prometeica, come prometeico nella sua grandiosa difesa dei propri interessi appare il tiranno) comporta una sostanziale cecità, quella condizione, cioè, che porta ad ignorare, o sottovalutare o minimizzare i segnali premonitori dei primi vagiti di una dittatura, tanto da non rendersi conto che «aromi, unguenti, corone, vini e piaceri dissoluti47» sono condizioni a contorno di ogni tirannide, una sorta di “paese dei balocchi” sempre luminoso e aperto e disponibile, e con l’unica funzione di anestetizzare la critica, tappare con «un bavaglio ricoperto di miele48», scrive Stanilław Jerzy Lec, la bocca dell’indignazione e dell’opposizione. Nell’ubriachezza (che ha la sua radice proprio in quella ubris intesa sempre come eccesso) nasce la tirannide di uno solo ma anche la schiavitù dei molti che soggiacciono, inermi, al suo strapotere. Non è un caso che tutta la discussione sulla tirannide che Platone conduce nel corso dell’VIII e IX libro della Repubblica è anticipata dal racconto del mito della caverna49 come monito e metafora propedeutica dei rischi della cecità e dell’ignoranza e che nella descrizione plastica assomiglia tanto, ma è solo una nostra suggestione, a quell’Orecchio di Dionisio che era al contempo prigione e cassa di risonanza, contenitore ed amplificatore di ogni umore, di ogni passione umana continuamente monitorata e sorvegliata.

2. Ermeneutica e fenomenologia della tirannide.

Di metafora in metafora è possibile approdare ad uno sguardo sulla realtà contemporanea capace di cogliere aspetti ulteriori rispetto a quelli evidenti ad un primo approccio storico-logico-inferenziale: in questo senso allora potrebbe essere utile e vantaggioso astrarsi, anche solo momentaneamente, dal dato storiografico, dall’evidenza dei fatti realmente accaduti (a Siracusa con Dionigi e ad Atene con i Trenta) e fermarsi e sostare sulle metafore le quali, proprio perché attinenti al mondo poetico, letterario, teoretico (a quella dimensione del poieo che, dice Aristotele, è condizione umana per eccellenza) possono diventare dei varchi facilmente attraversabili e capaci di condurci all’essenza delle cose, all’essenza, in questo caso della tirannide.

La caverna (del tiranno Dionisio e di Platone), la condizione di cecità e di ignoranza, nonché la consapevolezza di essere monitorati ed osservati, e persino la religione laddove essa sfocia nella superstizione diventano allora paradigmi perpetui e sempre validi per interpretare la tirannide e sostare, usando la locuzione aristotelica, perí ermeneias, intorno alla tirannide come stato in luogo figurato, intorno all’ermeneutica della tirannide e della sua fenomenologia sempre uguale a se stessa, come caratterizzata dalla ciclicità di un eterno ritorno dell’uguale.

Se le tirannidi, ovvero ogni realtà totalitaria, rimangono un corpo estraneo alla politica50 e se per politica qui si intende l’arte della convivenza e della buona convivenza nella polis, allora in questa accezione forse tutte le dittature e tutte le tirannie si somigliano, pur sprigionando forze telluriche diverse come due terremoti che mai uguali nell’intensità, potrebbero tuttavia essere uguali negli effetti. Pur appellandosi a strati diversi della popolazione, infatti, pur provocando derive diverse nella società e crisi di assestamento, come accade nella tettonica a zolle da tempi geologici, le tirannidi si assomigliano. E se il Novecento ha avuto esperienza di tirannie e di sistemi totalitari, allora lo stesso Novecento può essere chiave di lettura per interpretare la tirannide di ieri e metterci in guardia da potenziali tirannie future.

È senz’altro vero in ogni caso che occorra uno sguardo storico e occorra una valutazione delle temperie culturali e sociali che hanno dato vita e forma alle tirannie politiche, tenendo conto certamente della distanza, talvolta millenaria, tra il passato e il presente e facendo uso e buon uso di una qualità ricognitiva che sappia e possa metter in chiaro i limiti di una comparazione storica. Ma qui vogliamo credere fortemente che l’interpretazione delle metafore, come varchi di conoscenza dell’umano, come condizioni per un’ermeneutica dell’inesauribilità del reale, possano diventare occasioni d’intesa ancora disponibili per una comprensione e per un’analogia tra noi e gli ateniesi, tra noi e i siracusani sotto Dionisio, nonostante le diverse condizioni culturali di partenza e di appartenenza.

Ed allora sostiamo ancora intorno all’Orecchio di Dionigi (metafora della realtà storica) e intorno alla Caverna di Platone (metafora della realtà filosofica) per avvicinarci al senso ultimo della tirannide (oggetto di realtà politica), al di là della lontananza secolare e nonostante la nostra condizione contemporanea non abbia nulla a che fare con la prigionia dei condannati di Dionigi e di Platone, e nonostante essa sia anzi una condizione molto più felice per i progressi tecnici e culturali che facilitano la nostra esistenza.

Ed allora più che la storia è forse la letteratura, labirinto e culla di metafore, il vero sismografo per registrare l’andamento delle tirannidi e per condurci, come lettori e cittadini della polis contemporanea e globale, nella direzione di un’ermeneutica della tirannide attraverso i suoi molteplici sentieri, senz’altro non interrotti, e per offrire una griglia interpretativa della realtà contemporanea facilmente paragonabile a quella condizione politica e psicologica già vissuta dall’umanità secoli addietro. Per traghettarci, in altri termini, dalla Siracusa e dall’Atene del V secolo a. C. al nostro Novecento e da qui alla realtà contemporanea.

Ad esempio, ne Il mondo nuovo (1932)51, Aldous Huxley prevedeva, seppur nelle more di un romanzo, la rovina dell’umanità attraverso l’intrattenimento trasformato in strumento di controllo sociale più efficace e più efficiente della coercizione e della violenza.

Nel romanzo utopico di Huxley per la nuova umanità manipolata e formattata dallo slogan “Community, Identity, Stability” è considerato conforme alle regole sociali essere molto mondani, aver cura del corpo ed essere buoni consumatori di prodotti. È invece inaccettabile e assolutamente pericoloso per sé e per gli altri passare del tempo in solitudine, essere monogami, astrarsi e allontanarsi dalla Community, dove “ognuno appartiene a tutti gli altri”, o meglio, ognuno è legato agli altri, connesso agli altri (anche fisicamente), interconnesso agli altri, in una prossimità fisica e logistica claustrofobica da villaggio inteso qui non con l’attributo globale ma nel significato antico di piccolo borgo, di realtà dove tutti si conoscono e tutti parlano a tutti, tutti parlano di tutti. Ogni forma di educazione viene sostituita da forme di condizionamento (condizionamento dall’alto e condizionamento reciproco) considerato lecito e legittimo in una società programmata per negare gli affetti più intimi e dove la nomenklatura ammessa ripudia come offensivi gli epiteti tradizionali che indicano le relazioni affettive per imporre solo generici legami amicali53: una società orientata alla perpetua armonia (lontana dalla sana dialettica nella quale si costruiscono gli universi affettivi, teoretici, culturali e politici) dove ognuno viene inviato ad amare la propria collocazione sociale proprio come, diremmo, la formica operaia nel formichiere ama il suo ruolo infinitesimale e mai ambirebbe al ruolo di regina, forse addirittura guardata con disprezzo come rappresentante di un’elite54. Infine, come antidoto ad ogni forma di possibile infelicità viene distribuita gratuitamente una droga al contempo euforizzante e calmante, capace di addomesticare l’uomo e renderlo più docile e disponibile alla coercizione sottile, impalpabile, ridente, ridanciana e luminosa della quale è prigioniero a sua insaputa. Un solo individuo sembra sfuggire (per caso, per sbaglio e per errore in questo nuovo mondo di autentica ingegneria sociale) al meccanismo politico perfettissimo che come tritacarne annulla la singolarità umana a favore di un’identità collettiva alienante, e quest’uomo avverte tutta la perversione della neolingua fatta di slogan politici e sociali nella quale si viene allevati e percepisce la felicità liquida e interconnessa nella quale è immerso come artefatta e manipolata, una sorta di “Truman show” dove si sta come pesci in un acquario inconsapevoli dell’esistenza dell’oceano, e dove tuttavia la sua esistenza di singolo (“quel singolo” alla maniera di Kierkegaard), si trascina come esistenza disconnessa, asociale, disadattata, potenzialmente pericolosa o quantomeno strana, straniera, straniante.

In questo scenario la cultura, che ha o dovrebbe avere il compito di traghettarci «fuori dalla caverna di Platone non in gruppo ma ad uno ad uno», come auspicava Nicola Chiaromonte55, viene fatalmente sacrificata come primo capro espiatorio ad un mobilismo universale, globale e collettivo che amalgama oggetti, informazioni e scambi senza altre preoccupazioni che non il buon funzionamento dell’ingranaggio, del processo che dirige il suo flusso e che va nella direzione di una compattezza, di una monoliticità di intenti, di volontà, di pensiero che assomiglia tanto ad una condizione totalitaria e totalizzante dove l’uno viene fagocitato nel tutto, nel continum56 indifferenziato e affollato.

Il sacrificio della cultura (intendendo con essa anche tutte le istituzioni che dovrebbero diffonderla) impedisce di sollevare spiritualmente, intellettivamente, politicamnete e moralmente l’umanità; una cultura così mortificata e ridimensionata assomiglia, secondo Zygmunt Bauman, ad un mero prodotto rivolto ad una platea di consumatori, costituita da offerte e non da norme, meno che mai da norme morali o etiche. Una cultura siffatta sarebbe intrisa di seduzioni e non di regole prescrittive, di pubbliche relazioni e non di controlli, condizione solo di nuove esigenze, desideri, bisogni e capricci ma non coscienze, occasione di incontri, di ricreazione ma non di riflessione. Specchio, in altri termini, della società liquida e digitale:

Rinunciare a canoni ben definiti, abbandonarsi alla mancanza di discernimento, assecondare ogni gusto senza privilegiarne alcuno, incoraggiare la discontinuità e la flessibilità (termine diffuso e politicamente corretto per descrivere la mancanza di spina dorsale) e idealizzare l’instabilità e l’incoerenza […] una prerogativa encomiabile e appropriata a una società dove le reti si sono sostituite alle strutture, e il gioco di avvicinamento/distacco e una serie infinita di connessioni e disconnessioni si sono sostituiti alla capacità di determinare e stabilire57.

La leggenda siracusana racconta che per uscire incolumi dall’Orecchio di Dionisio occorreva dimostrare di possedere una conoscenza alta, di essere in grado di recitare la poesia del tempo dopo averla evidentemente distinta da prodotti commerciali, diremmo, e dunque occorreva mostrare di essere informati, colti, padroni di un sapere non certo piegato su obiettivi minimi. La leggenda, anche se poco documentata, ha però, come tutti i miti, un fondamento universale e teoretico nella consapevolezza che solo la conoscenza può salvare l’umanità dalla tirannide e da un destino di schiavitù, o anche dal capriccio di un despota.

Ma di quale conoscenza parliamo? Si tratta di una cultura scolastica o nozionistica oppure di una coscienza e di una sapienza più alta, metafisica diremmo ed attinente all’universo esistenziale? E soprattutto: la contemporaneità rischia di finire in uno scenario da rinnovata tirannide, in una nuova caverna platonica dalla quale diventa più complicato uscire non tanto per una difficoltà intrinseca quanto piuttosto per il fascino che essa potrebbe esercitare, per un senso di piacevolezza nel sostare al suo interno, come se la caverna fosse il luogo di quell’intrattenimento che anestetizza, secondo i presagi di Huxley?

La letteratura, come fucina di metafore esistenziali, ci ricorda con Carlo Collodi, ad esempio, che Pinocchio non voleva allontanarsi dal paese dei balocchi58 e che questa sua ostinazione avrebbe potuto costargli la condizione perpetua di burattino e non di essere umano, e sempre la letteratura con Franz Kafka ci racconta del grande teatro di Oklahoma59 come di una realtà dove tutti sono felici ma alla maniera delle marionette, trascinati come automi verso un luogo imprecisato dove si viene reclutati per svolgere un lavoro poco chiaro in un’impresa dalle finalità oscure, dove viene sacrificata quella vocazione al poieo aristotelico, al fare, al pensare e al poetare che ci umanizza, e dove l’allegria è artificiale, forzata, a tratti inquietante. Entrambe le situazioni appaiono l’anticamera della schiavitù e della servitù, ed entrambe sono caratterizzate da una condizione preliminare imprescindibile: l’abbrutimento intellettuale. Del resto Lucignolo muore nel paese dei balocchi dopo aver subito la sua metamorfosi irreversibile in asino che nell’immaginario infantile collettivo è proprio sinonimo di una non volontà di pensiero, di ragionamento.

Hannah Arendt (secondo la quale proprio dalla condizione del non-pensare deriva il male) indagando la fenomenologia della tirannide nel Novecento con uno sguardo retrospettivo, ci ricorda che esiste anche un volto sorridente, ameno, ilare della tirannide dal quale occorre guardarsi per non cadere nell’antica trappola politica volta ad attirare il consenso popolare attraverso forme di distrazione le più varie per allontanare l’attenzione dai giochi di potere:

il guaio è che queste forme di governo non è tanto che sono crudeli (anzi spesso non lo sono) ma piuttosto il fatto che funzionano troppo bene. I tiranni, se sanno il fatto loro, possono ben essere “miti e gentili in ogni cosa” come Pisistrato, il cui governo anche nell’antichità fu paragonato all’età d’oro di Cronos; le loro misure possono apparire veramente non tiranniche e benefiche […] Ma tutti hanno in comune l’esclusione dei cittadini dalla sfera pubblica e l’insistenza con cui li invitano a badare ai propri affari mentre solo chi governa “deve attendere agli affari pubblici” […] Sono i vantaggi a breve durata della tirannia, i vantaggi della stabilità, sicurezza e produttività, da cui ci si deve guardare se non altro perché aprono la strada a un’inevitabile perdita di potere, anche se le loro reali conseguenze disastrose possono verificarsi in un futuro relativamente lontano60.

3. Dalla tirannide analogica a quella digitale.

Probabilmente questo futuro “relativamente lontano” è proprio sotto i nostri occhi, posti come siamo di fronte ad una mutazione tecnico-antropologica che ha invertito e trasformato, talvolta trasfigurato, sin nel profondo, tutti i processi di trasmissione, acquisizione, elaborazione della conoscenza umana, sia del pensiero teoretico (che rappresenta al contempo il solo baluardo alla tirannide e il solo antidoto per scongiurarla) e sia del pensiero pratico (la tecnica) attraverso l’hardware e il software. La Rete e la diffusione di infrastrutture e architetture e piattaforme digitali sempre più complesse, sempre più interconnesse, hanno modificato non solo il nostro sguardo sul mondo e il gesto ermeneutico, interpretativo dell’uomo sulla realtà, ovvero la rappresentazione del mondo, bensì hanno modificato anche il nostro modo di “stare al mondo”, il nostro abitare la polis, e dunque anche la nostra relazionalità nella polis attraverso nuove forme di socializzazione e di socialità digitale (social connection). Tutto questo non può non avere un precipitato filosofico, esistenziale e pratico rilevantissimo nelle dinamiche politiche e di potere, nella gestione del governo o del buon governo della polis, se è vero, come spiega Aristotele, che l’uomo ricava dal suo bisogno di stare in società la sua ambizione e la sua vocazione massima di zoon politicon, di animale politico per eccellenza.

La politica non è arte che si pratica in solitudine (nello stare solo e pensoso) ma è arte, tecnica che si applica nella mediazione, nel medium della relazione e nella relazionalità, nel medium del piccolo gruppo, della tribù, del villaggio, della città, della metropoli, e nel medium delle passioni, diremmo, nel giusto mezzo, tenendo lontano la ubris e l’eccesso.

E se oggi la tribù, il villaggio e la città sono tribù, villaggio e città digitali o costruite su strutture portanti digitali e se gli spazi di relazione si ricavano nelle nuove agorà digitali, e se i luoghi di manifestazione delle proprie passioni ed emozioni sono diventate le infrastrutture digitali, di questo occorre tener conto nella riflessione politica e nell’analisi di ogni forma di autoritarismo.

In altri termini, una critica del giudizio politico, anche del giudizio politico della tirannide, passa da una critica della ragion pura digitale e da una critica della ragion pratica digitale, e da una critica del nostro nuovo modo di stare al mondo digitale, non senza chiederci se la nostra condizione di zoon politicon digitali sia quella di cittadini di una nuova Siracusa digitale (al cui centro troviamo un nuovo Orecchio di Dionisio digitale, una latomia digitale, fatta di bit, di like, di selfie e non di roccia) o piuttosto assomiglia alla condizione di cittadini di una nuova Atene digitale, che ha maturato al suo interno sane forme di tirannofobia.

Ma per stanare la tirannide digitale là dove essa potrebbe annidarsi, dovemmo tener conto della chiave interpretativa di Huxley e di Hannah Arend e dovremmo allora cercare una risposta non nei palazzi del potere ma nei luoghi della socializzazione e del divertissement, ancorché digitale, che oggi animano la vita sociale della nuova polis, e che possono essere di volta in volta o causa di una distrazione fatale che ci allontana dal gesto politico e democratico, o al contrario possono rivelarsi gli snodi principali, le agorà della nuova opinione pubblica che smaschera il tiranno o lo sottomette allo sguardo di quell’occhio clinico tirannofobico di cui gli Ateniesi erano portatori.

4. Intorno alla Nuova Caverna Digitale di Platone

Questi interrogativi scomodano problematiche di tipo ontologico e metodologico, nonché educativo, prima ancora che problematiche politiche. La connrandi monopolisti della Rete è diventata il nuovo habitat dell’umano, la condizione dell’antropocene digitale, producendo una rivoluzione copernicana nel rapporto con lo spazio e con il tempo in quanto abbatte ogni barriera fisica nella disponibilità di ogni tipo di informazione e di conoscenza in un continum qui ed ora. L’esposizione ininterrotta alle informazioni ha reso possibile quello che Douglas Rushkoff chiama «presente continuo61»: la frantumazione del tempo in centinaia di frammenti convergenti verso una sola necessità, ovvero esperire tutto nello stesso momento in cui si compie, pena il non-esserci. E difatti questo tempo presente dilatato in un unico grande, infinito, totalitario istante viene attraversato dal nostro io virtuale nelle social connection, e riveste gli atti del nostro esserci virtuale.

Al di là delle problematiche giuridiche dovute alla manipolazione di chi gestisce la comunicazione su scala globale, e al di là del fatto che la nuova comunicazione virtuale ha preteso che ciascun essere umano si consegni ad un editor62 il vero dato interessante ai fini della nostra discussione è che questo spazio-tempo virtuale è popolato da realtà digitali che simulano, imitano la realtà (come le ombre proiettate sulla parete della caverna) e che vengono spacciate per verità anche quando non lo sono. Si tratta di uno spazio attraversato da una linea che simula lo scorrere temporale ma in realtà è un tempo immobile, paralizzato, legato ad un eterno presente sempre fruibile, sempre accessibile (non esistono i siti del “giorno prima” così come potrebbe esistere un giornale del giorno prima, eppure il tempo dell’umano scorre con tutte le sue vicende, eppure l’umano cambia ogni giorno a dispetto di un profilo virtuale immobile e pietrificato, eppure il tempo dell’umano è un tempo narrativo, un tempo che ha una trama suddivisa, scandita dal divenire) e che riproduce la condizione dei prigionieri della caverna, legati e costretti a guardare le stesse immagini, a guardare in un’unica direzione. La falsa credenza che questa realtà proiettata sullo schermo digitale sia non soltanto la sola realtà possibile (buona parte della nostra relazionalità, della nostra predisposizione alla socialità e al dialogo anche politico si consuma nello spazio virtuale, come se fosse l’unico spazio disponibile) ma anche realtà più vera e verosimile deriva dal fatto che i contenuti digitali hanno acquisito una sorta di primato ontologico sui contenuti analogici dovuto alla velocità con la quale vengono prodotti, trasmessi, visualizzati, usati, fruiti e rimbalzati. Si tratta di una credibilità fondata sulla ridondanza, sulla facile reperibilità, finanche sulla quantità di materiale a disposizione e infine, e non ultimo, sulla velocità con la quale essa viene trasmessa. Come in un gioco a quiz dove il concorrente che ha il pollice più veloce nello schiacciare il tasto di prenotazione della risposta ha priorità sull’altro concorrente più lento, ma forse anche più riflessivo, così in Rete la velocità è un valore intrinseco e garanzia di credibilità. A questa fallacia logica si accompagna l’universo empatico che caratterizza il nostro predisporci quotidiano in Rete dove la velocità con la quale i contenuti vengono trasmessi genera un effetto giostra piacevolissimo dovuto al vortice digitale che assomiglia alla condizione di chi fluttua, sorvola, naviga a grande velocità sulla realtà: il sogno di Icaro, la realizzazione della libertà che ha come ali conoscenza e sapere digitale, spesso ci rende incuranti del fatto che, proprio come in una giostra, si sorvola in tondo sempre lo stesso frammento di spazio. La grande prateria della Rete è infatti generalmente suddivisa in piccole grandi tribù sociali, community virtuali che condividono gli stessi interessi, le stesse predisposizioni (come una moderna rappresentazione degli ideali di Community, Indentity and Stability de Il mondo nuovo) e sono rare le incursioni verso tribù sociali e virtuali completamente estranee se non per attacchi offensivo-digitali diremmo (se non per azioni riconducibili ad un cyberbullismo dei minori e degli adulti): il grande nomadismo sociale che la Rete probabilmente permetteva sin dai suoi primi vagiti si è presto trasformato in una sostanziale sedentarietà culturale, politica e teoretica (da pensiero unico) e da nomade, quale avrebbe potuto essere e rimanere, l’homo tecnologicus-digitale si è presto trasformato in un homo stanziale, anche abbastanza ostile e teso a difendere strenuamente il proprio territorio virtuale fatto di conoscenze in termini relazionali e gnoseologici, rinchiudendosi in congreghe o sette virtuali che coltivano la stessa religione (alimentare, politica, sanitaria, educativa, economica, morale), la stessa rappresentazione del mondo.

Ora, queste condizioni della comunicazione digitale sono apparentemente prossime alla libertà di parola e di espressione di cui è impregnata ogni democrazia contemporanea ma occorre che si accompagnino ad una consapevolezza fondamentale ovvero che la realtà iperconnessa potrebbe essere talvolta del tutto incompatibile con il modus operandi di una buona istituzione e di un buon governo la cui arte di amministrare è fondata su un continuo bisogno di feedback che richiedono tempi molto dilatati. Forse è questa la consapevolezza più alta alla quale pervenire e che non corrisponde ad un mero nozionismo ma ad un livello di coscienza e di conoscenza di grado superiore, perché quando si parla di lentezza non ci si riferisce ai tempi della burocrazia senz’altro lunghi ma in senso deteriore e obsoleto, bensì ai tempi della riflessione, della concentrazione, dell’attenzione, dell’elaborazione, della giusta deliberazione. Le democrazie contemporanee sono spesso, a livello strutturale, ben pensate per favorire questa fertile lentezza e ponderatezza che serve ad una giusta mediazione tra le parti (la doppia camera di un Parlamento, ad esempio, potrebbe andare in questa direzione) ma il problema che qui ci interezza è il problema della partecipazione alla quaestio democratica, ovvero il problema educativo che investe in prima istanza la vita associata e in seconda istanza l’esperienza comunicativa.

5. Strategie di uscita dalla tirannia (digitale) contemporanea

La democrazia come condizione antitetica alla tirannide è un processo perennemente in fieri, lontano da ogni forma di pietrificazione, lento nei suoi movimenti, orientato alla mediazione tra le parti, ovvero ad un dialogo continuo e non meramente interlocutorio o limitato alla prossimità dell’interlocutore, e che va analizzato alla luce delle nuove forme di socializzazione e comunicazione virtuale, soprattutto perché queste ultime, per una curiosa forma di sineddoche (la parte per il tutto) non siano confuse con il cuore della democrazia. Il cuore della democrazia, secondo John Dewey, sta infatti nel rapporto con l’educazione e con l’accesso a quella consapevolezza più alta di cui sopra:

Qualsiasi educazione data da un gruppo tende a «socializzare» i suoi membri, ma la qualità e il valore della socializzazione dipendono dalle abitudini e dallo scopo dei gruppi […] Ora in un qualsiasi gruppo sociale, anche in una banda di ladri, troviamo qualche interesse comune, e una certa quantità di interazione e relazioni di cooperazione con altri gruppi […] Quanto vari sono gli interessi consciamente condivisi? Quanto è completo e libero lo scambio con altre forme di associazione? Se applichiamo queste considerazioni, per esempio, a una banda criminale, troviamo che i legami che tengono insieme consciamente i suoi membri sono pochi di numero, riducibili quasi al comune interesse nel bottino; e che sono di natura tale da isolare il gruppo da altri gruppi riguardo allo scambio dei valori della vita. Perciò l’educazione fornita da una simile società è parziale e deformata63.

Per Dewey la democrazia è qualcosa di più di una forma di governo, ma è prima di tutto vita associata ed esperienza comunicata. Vita associata significa l’estensione nello spazio del maggior numero di individui che considerano l’azione degli altri non un limite alla propria azione, non uno steccato alla propria libertà, bensì un’occasione per muoversi nella direzione di una maggiore consapevolezza del vivere in comunità (che non è solo mera community, diremmo oggi, tanto più digitale) perché essi non siano sopraffatti dai cambiamenti nei quali si trovassero coinvolti e di cui non capirebbero il significato e la connessione. Ne seguirebbe una confusione nella quale un piccolo numero di persone si impadronirebbe dei risultati delle attività altrui cieche e dirette dall’esterno.

Ne seguirebbe, in altri termini, non tanto e non solo il predominio di una tribù più forte (numericamente, ideologicamente) sulle altre tribù più deboli, ma ne seguirebbe una situazione di monopolio da parte di chi è in grado di approfittare di questa divisione.

Negli anni Sessanta, in maniera profetica, Lyotard scriveva a proposito delle condizioni della conoscenza che si intravedevano nella società contemporanea e che stavano per provocare quel capovolgimento di paradigma nelle dinamiche sociali e comunicative:

Ammettiamo, per esempio, che un’impresa come la IBM sia autorizzata ad occupare un corridoio orbitale attorno alla Terra per piazzarvi dei satelliti di comunicazione e/o delle banche di dati. Chi vi avrà accesso? Chi deciderà quali siano i canali e i dati riservati? Lo Stato? Oppure esso sarà un utente come tutti gli altri? Nascono in tal modo nuovi problemi giuridici ed attraverso di essi si pone la domanda: chi saprà?64

Basterebbe sostituire il riferimento alla (longeva) IBM con una qualsiasi realtà tecnica e tecnologica oggi a nostra disposizione, con l’autostrada delle Rete occupata dai grandi Provider monopolisti, ad esempio, per cogliere in quell’interrogativo finale sul detentore di conoscenza il riproporsi dell’interrogativo filosofico ineludibile. La democrazia (anche quella digitale) che porta al ripudio e alla fobia della tirannide (anch’essa digitale) e che vuole contrapporsi a tutte le sue forme, scongiurandone l’eterno ritorno, ci invita ad uscire dalla caverna di Platone nella quale ci siamo volontariamente rinchiusi, con forme di socializzazione digitale che simulano le vecchie tribù primitive dove la nostra persona viene recintata con le sue abitudini, i suoi interessi e consegnata alla discrezionalità di nuovi Dionigi che hanno la possibilità illimitata di vendere questi dati e queste informazioni, di ascoltare e monitorare ogni espressione comunicativa, traendone in prima istanza indubbi vantaggi economici e commerciali e forse traendone dopo anche dei vantaggi politici nella direzione di un controllo capillare, totalitario dell’esistenza.

La democrazia di cui parla Dewey ha infatti bisogno di una dimensione educativa che scomodi una consapevolezza esistenziale, non nozionistica né scolastica, bensì consapevolezza dell’irriducibilità della persona, della sua singolarità: quella consapevolezza, scrive Primo Levi, da cui viene la vera libertà dell’uomo, anche dell’uomo in catene.

Da cittadini della polis globale, interpellati dalla quotidiana, ormai imprescindibile interlocuzione “sei su Facebook?” dovremmo, con nuova consapevolezza etica ed ermeneutica, rispondere in prima istanza e in prima persona “No. Sono qui. Sono qui ed ora e sono qui di fronte a te. Sono qui con la mia irriducibilità e la mia finitudine”, e non perché non si possa o non si debba stare su Facebook, ma perché da abitanti di una nuova Atene digitale dovremmo essere consci, orgogliosamente e responsabilmente consci, che quello stare su Facebook non è e non potrà mai essere l’unico modo di stare al mondo. Abitare la polis globale vuol dire riscattare un’identità completamente appiattita sulla sola forma e sulla sola modalità fenomenica dell’identità virtuale e ricondurre e ridimensionare quest’ultima solo a ciò che essa è o dovrebbe essere: un segmento della persona, un’appendice e non la più vitale. Abitare la polis globale vuol dire altresì recuperare la dimensione del tempo come imitazione dell’eterno, come contenitore dell’intelligenza e della volontà, come coordinata entro la quale si colloca la posizione dell’uomo che, nel suo essere intrinsecamente desituato, può trovare nel tempo la dimensione dell’autenticità dell’esserci: esperire il mondo ed esperire la realtà comporta l’impiego e l’esercizio di tutto l’essere e nell’attraversare il teatro dell’esistenza ci si ritrova a dover rivestire innumerevoli ruoli, molti di essi fortemente identitari e non comprimibili in un profilo virtuale, che come Orecchio di Dionigi virtuale ci vede rinchiusi e alle prese con il problema di come sintetizzare, zippare noi stessi. Foto e video, selfie e commenti (anche se condivisi) ma potrebbero esaurire la complessità poliedrica e l’incommensurabilità dell’umano.

Stare al mondo significa essere autenticamente presenti a noi stessi nell’esercizio del nostro variegato esserci che comporta in prima istanza un esserci nel tempo: non un impiego di tempo né uno spreco di tempo, bensì un attraversare il tempo, forse un interiorizzare il tempo, uno stare sul tempo.

Nell’attraversare i sentieri della consapevolezza dello stare al mondo senza distrazione (proprio senza quella distrazione fatale che ci disumanizza e di cui parlava Pascal) che si recupera infatti quella dimensione autenticamente umana del tempo già intravista da Agostino quando, in una delle più belle riflessioni poetiche delle Confessioni, «in te, anima mia, misuro il tempo65» legherà per sempre, nella coscienza occidentale, il contenuto del tempo al contenuto esistenziale della singolarità e dell’individualità dell’uomo, rivelando così che la consapevolezza dell’abitare il tempo è consapevolezza dell’esistenza con tutto ciò che essa porta con sé con gli eventi, le scelte, gli incontri, gli amori che diversificano ogni vita da un’altra: con il filo della voluntas spesso a noi ignota, eppure profondamente nostra, che sembra determinare il nostra destino66.

La dimensione esistenziale che caratterizza l’uomo è riconducibile alla sapienza primaria e originaria di stare e di essere in un tempo e in uno spazio: se dividessimo il tempo della giornata nei variegati segmenti della nostra identità (essere madri e padri, ma al contempo anche figli, e al contempo lavoratori, e al contempo…) e se dedicassimo ad ogni segmento l’attenzione, la presenza anche d’animo necessaria per viverlo interamente, autenticamente, vedremmo come il segmento temporale vissuto per esercitare e vivere ed aggiornare un’identità virtuale, che è solo una delle infinite identità, si ridimensionerebbe e diventerebbe un frammento di tempo analogo (o inferiore) per estensione e valore a tutti gli altri frammenti di tempo durante i quali si esercitano le diverse forme identitarie del nostro esserci.

Ora, nel villaggio globale l’identità virtuale non è considerata una delle tante infinite identità: essa coincide con l’intero dell’identità, ed ecco perché fagocita ed erode il tempo, s’insinua come un tarlo negli altri segmenti e non lascia spazio e non lascia scampo e chiede continua attenzione. L’identità virtuale s’impone come ladra di tempo, una sorta di catena a cui l’uomo si lega dalla testa ai piedi e, come diceva Gadamer a proposito delle schiavitù imposte dai nuovi media, «chi ha le chiavi di questa catena è una nuova élite che esiste solo per schiavizzare l’umanità con le immagini e con la sua frusta elettronica67».

Che le immagini siano le proprie o siano le immagini di coloro che conosciamo e che cerchiamo nella Rete delle relazioni, poco importa: si sta sempre come prigionieri nella caverna platonica, condannati alla fruizione di un’eterna fictio.

1 «Carcer ille, qui est a crudelissimo tyranno Dioniso factus Syracusis, quae latomiae vocatur», in M. T. Cicerone, In Verrem, libro V, v.55. Per una traduzione italiana si rimanda qui a N. Marinone e L. Fiocchi (a cura di), Cicerone. Il processo di Verre, BUR Rizzoli, Milano, 1992.

2 Si veda [copia anastatica] D. Lo Faso Pietrasanta Serradifalco, Le antichità della Sicilia, Reale Stamperia, Palermo, MDCCCXL, pp. 148-149.

3 Ibidem.

4 Oppure, secondo una variante che lo rende caratterialmente molto vicino al romano Nerone, anch’egli noto per la sua crudeltà, pare avesse l’abitudine di salvare solo coloro che avessero saputo dar prova di conoscere i suoi componimenti poiché sembra che Dionigi si dilettasse di poesia, anche se con scarsissimi risultati. La testimonianza più accurata viene da Diodoro Siculo che racconta come il poeta Filosseno, noto e stimato autore di ditirambi, invitato ad esprimere un giudizio sui componimenti del tiranno, non poté esimersi dal dire il vero criticandoli aspramente e per questo fu rinchiuso nella latomia. Graziato successivamente per intercessione dei suoi amici e invitato nuovamente ad esprimere un giudizio, pare tacesse e, conclude Diodoro, fu lo stesso poeta Filosseno quella volta a chiamare autonomamente le guardie di Dioniso perché lo conducessero in prigione. In Diodoro Siculo, Biblioteca Storica, Libro XV. Per un approfondimento delle fonti di Diodoro Siculo si rimanda qui a K.F. Stroheker, Dionysos I, Franz Steiner Verlag, Wiesbaden, 1958.

5 Per una disamina approfondita si rimanda a A.Scarpa Bonazza Buora, Libertà e tirannide in un discorso siracusano di Diodoro Siculo, L’Erma di Bretschneider, Roma, 1984.

6 Aristotele, Politica, V. Per una traduzione italiana si rimanda qui a C. A. Viano (a cura di), Aristotele. Politica, BUR Rizzoli, Milano, 2002.

7 Nella Vita di Dione Plutarco racconta molti aneddoti sui tiranni Dionisio I e II di Siracusa. Per una traduzione italiana si veda R. Del Re (a cura di), Plutarco. Vita di Dione, Le Monnier, Firenze, 1948. Per una maggiore disamina si rimanda qui a R. Zoepffel, Le fonti scritte su Dionigi di Siracusa, in Atti di Convegno Studi Numismatici, Roma, 1993, pp.39-56. Infine è utile anche consultare C. Colonnese, Le scelte politiche di Plutarco. Le vite non scritte di greci illustri, L’Erma di Bretschneider, Roma, 2007, pp.45-61.

8 B. Caven, Dionigi I di Siracusa, Salerno Editrice, Roma, 1992, p. 7.

9 In ogni caso, per una più ampia e completa disamina dell’argomento si rimanda qui a N.Bonacasa-L.Braccesi-E.De Miro (a cura di), La Sicilia dei due Dionisî, Atti della Settimana di Studi, Agrigento 24-28 Febbraio 1999, L’Erma di Bretschneider, Roma, 2002; e a J.F.McGlew, Tyranny and political culture in ancient Greece, Icornell University Press, thaca, N.Y. – London, 1993.

10 Sulla vita angosciosa del tiranno Dionigi si veda Valerio Massimo, Detti e Fatti memorabili, UTET, Torino, 2013.

11 La figura del tiranno è tratteggiata da Platone nei Libri VIII e IX della Repubblica. Qui e altrove per l’edizione italiana delle opere di Platone si fa riferimento a G. Reale, Platone. Tutti gli scritti, Bompiani, Milano, 2000.

12 K. R. Popper, Platone Totalitario, in La società aperta e i suoi nemici, Vol.I, Armando Armando, Roma, 1973.

13 Platone, Repubblica, VIII, 563e-564a-b.

14 Ivi, 579c-d.

15 Senofonte, Opera ominia, Vol.V, cap.VI, v. 4. Per un’edizione italiana si rimanda qui a A.Banfi (a cura di), Ierone o della tirannide, La vita felice, Milano, 2011. Nel 476 Senofonte ebbe ospite nella sua tenuta il poeta Simonide e immaginò un dialogo tra il suo dotto ospite e un tiranno, anch’egli siracusano, scrivendo così un trattato di scienza politica e di scienza del potere, poi letto e commentato da Machiavelli e da Leo Strauss. Si veda G.Iudica, Postfazione a Ierone o della tirannide, cit., p. 83.

16 Ibidem.

17 Per una disamina del concetto di pleonexia si rimanda qui a M.Vegetti, Il problema della giustizia nella Repubblica di Platone, in G.M Chiodi e R. Gatti, La filosofia politica di Platone, Franco Angeli, Milano, 2008, pp. 27-39.

18 Si veda D. Musti, Demokratía: origini di un’idea, Laterza, Roma-Bari, 2013.

19 Platone, Repubblica, VIII, 568e.

20 Platone, Repubblica, 555 b-557 c, 558 c-559 d.

21 Si veda N. Urbinati, Representative Democracy: Principles and Genealogy, University of Chicago Press, 2006.

22 G. Zagrebelsky, Contro l’etica della verità, Laterza, Roma-Bari, 2009.

23 Platone, Repubblica, VIII, 561a.

24 Ivi, 562c.

25 Si rimanda a J. Ober, Demokratia: a conversation on democracies, ancient and modern, Princeton University Press, New York, 1996; P.J. Rhodes, Athenian democracy, Oxford University Press, 2004; R.K. Sinclair, Democracy and Participation in Athens, Cambridge University Press, 1988.

26 Si veda G. Giorgini, La città e il tiranno: il concetto di tirannide nella Grecia del VII-IV secolo a.C., Giuffrè Editore, Milano, 1993.

27 La tirannofobia è oggetto di discussione in Tucidide, La guerra del Peloponneso, VI, 54-59. Per l’edizione italiana si rimanda qui a L.Canfora (a cura di), Tucidide. La guerra del Peloponneso, Einaudi, Torino, 1989. Per una disamina dell’argomento si veda C. Caserta, Corpo, Dike, comunicazione fra Agamennone e Pericle, Emil di Odoya Edizioni, Bologna, 2009, p.119; L. Canfora, Storia di Oligarchi, Sellerio, Palermo, 1983; Id, Tucidide e l’Impero, Laterza, Roma-Bari, 1991. Anche Aristofane parla di tirannofobia deridendo però coloro che mostrano troppa paura nei confronti dei tiranni, veri o presunti: si veda Aristofane, Le Vespe, 417, 463-479, 498-505, per l’edizione italiana si rimanda a G. Paduano (a cura di), Aristofane e Menandro. Il teatro greco. Commedie, BUR, Milano, 2007. In ogni caso per una maggiore e ulteriore disamina dell’argomento si rimanda qui a M. Vegetti, Chi comanda nella città, Carocci, Roma, 2017.

28 Plutarco, Pericle, 7,4. Per l’edizione italiana si rimanda qui a A.Traglia e D.Magnino, Plutarco, Vite parallele, Vol. II, UTET, Torino, 2006.

29 Per un approfondimento si veda A. Natalicchio, Atene e la crisi della Democrazia. I Trenta e la querelle Teramene/Cleofonte, Edizioni Dedalo, Bari, 1996; C. Berazot, Come si abbatte una democrazia. Tecniche di colpo di stato nell’Atene antica, Laterza, Bari-Roma, 2013.

30 Si veda Plutarco, Pericle, 7,4, in Vite Parallele, cit.

31 Senofonte, Ierone o della tirannide, cit., pp. 35-40.

32 Aristotele racconta che Cleone, prototipo del demagogo, arringava il popolo indossando un grembiule (o altri indumenti da lavoro) mentre tutti gli altri politici/oratori vestivano in modo adeguato. Aristotele, Politica, V, 1313b, cit.

33 Si veda L. Canfora, Demagogia, Sellerio, Palermo, 1993.

34 Si veda G. Cerri, La figura del tiranno nell’immaginario greco: dal mito alla storia, dalla storia al mito, in Quaderni Urbinati di cultura classica, vol.62, n.2, 1999, pp. 155-158.

35 Esiodo, Teogonia, 226. Per un’edizione italiana si veda G. Ricciardelli, Esiodo. Teogonia, Fondazione Valla, Mondadori, Milano, 2018.

36 Ivi, 901-999; Id, Le opere e i giorni, 239-250. Per l’edizione italiana si rimanda a E. Romagnoli, Esiodo. Le opere e i giorni, Zanichelli, Bologna, 1929.

37 Cfr. C. Caserta, Corpo, Dike, comunicazione fra Agamennone e Pericle, cit., p.134 e ss.

38 D. Pasini, Tirannide e paura in Platone, Senofonte e Aristotele, Jovene, Napoli, 1975, p. 71.

39 G. Avezzù (a cura di), Lisia. Contro i tiranni (contro Eratostene), Marsilio editore, Venezia, 1991.

40 Ivi, p. 42.

41 Ibidem.

42 Ibidem.

43 Platone, Repubblica, VIII, 557e-558c

44 Ivi, 572e.

45 Ivi, 563c-d.

46 Per una digressione contemporanea sulla condizione di un eccesso di diritti come condizione potenzialmente pericolosa per la democrazia si rimanda qui a A. Barbano, Troppi diritti, Mondadori, Milano, 2018.

47 Platone, Repubblica, IX, 573a.

48 S. Jerzy Lec, Pensieri spettinati, tr.it., Bompiani, Milano, 2015, p.89.

49 Platone, Repubblica, VII, 514b-520a.

50 Occorre qui una una precisazione storica: già nel V secolo a.C. la tirannide non era più considerata una forma di governo paragonabile alle altre perché il pensiero filosofico greco e la riflessione politica ad esso legata l’ avevano trasfigurata in una costruzione ideologica e in un agglomerato di potere autoritario. Il tiranno era considerato nel V secolo a.C. un nemico interno: «la figura del tiranno è una figura ideologica […] Non vi è quasi alcun tirannodel mondo greco anteriore al v secolo ricordato come personaggio inetto, debole», D. Lanza, Il tiranno e il suo pubblico, Einaudi, Torino, 1977, p. 162.

51 A. Huxley, Brave New Word, Chatto & Windus, London, 1932.

52 «Gli uomini, non avendo potuto guarire la morte, al miseria, l’ignoranza, hanno creduto meglio, per essere felici, di non pensarci», B.Pascal, Pensieri, tr.it. P. Serini (a cura di), Einaudi, 1962, p. 348.

53 Per una disamina della messa in discussione dei legami parentali e affettivi a favore di una generica predisposizione alla relazionalità liquida e flessibile, diremmo, nonché sfilacciata si rimanda qui a C.T.Altan, Antropologia funzionale, Bompiani, Milano, 1968, p.87.

54 Sul significato contemporaneo di elite intellettuale/culturale e sul suo fatale destino di essere disprezzata o addirittura negata nel proprio esserci, nella sua esistenza ed essenza, si rimanda qui a R. A. Peterson e R.M.Kern, From Snob to Onnivore, in Amrican Sociological Review, vol.61, n.5, 1996, pp. 900-907, dove si oppone l’onnivoracità culturale alla univoracità culturale, la disponibilità a consumare e gustare tutto, a parlare di tutto anche se non si è esperti di nulla, contro la discrezionalità, la selettività, l’esperienza dovuta allo studio e alla ricerca, magari. Da questa onnivoricità alla proliferazione delle false credenze e delle fack news con la diffusione di falsi esperti il passo è breve, diremmo noi. La scomparsa dell’elite ha prodotto per paradosso, secondo Zygmunt Bauman, la trasformazione del popolo in massa e da qui a “consumatori culturali”, mentre la cultura, nella sua forma liofilizzata e facilitata, ha smesso di essere condizione di elevazione morale e sociale (nonché volano economico), Z. Bauman, Cose che abbiamo in comune: 44 lettere dal mondo liquido, tr.it., Laterza, Roma-Bari, 2015, p. 57.

55 N. Chiaromonte, Il tempo della malafede e altri scritti, Edizioni dell’asino, Roma, 2013, p.28.

56 In questo senso appare opportuna una breve riflessione su una vecchia campagna pubblicitaria della Apple ai primordi dell’era digitale e che non a caso partiva dalla citazione di una pagina di un altro grande romanzo utopico e dispotico (capovolgendone il senso o piegandolo a proprio favore) come 1984 di George Orwell nel quale si ipotizza proprio la nascita di un Grande Fratello e di una dittatura culturale e popolare totale, totalizzante e soprattutto monolitica e ad una sola voce, dove non è possibile uscire fuori dal coro. Lo spot intendeva porre il software e l’hardware Apple come ideologicamente antitetici al rischio di una possibile dominazione culturale e onnivora. In realtà, a rivederlo oggi, alla luce di una dittatura digitale che qui vogliamo argomentare, appare quasi profetico in maniera sinistra : “Oggi, noi celebriamo il primo glorioso anniversario delle Direttive sulla Purificazione dell’Informazione. Noi abbiamo creato – per la prima volta in tutta la storia – un paradiso di pura ideologia. Dove ciascun lavoratore può realizzarsi al sicuro dalla peste delle verità contraddittorie. La nostra Unificazione di Pensieri è un’arma più potente di qualsiasi flotta o armata sulla terra. Noi siamo un popolo, con una sola volontà, un’unica risolutezza, una sola causa. I nostri nemici potranno parlare fino alla morte e noi li sotterreremo con la loro stessa confusione. Noi prevarremo! Il 24 gennaio la Apple Computer lancerà Macintosch. E capirete perché il 1984 non sarà come 1984”. Spot Apple Macintosch, 1984. Per una disamina dell’impatto culturale della campagna pubblicitaria si veda T. Friedman, Apple’s 1984, in Electric Dreams: Computers in American Culture, NYU Press, New York, 2005, pp. 100-120. Per una disamina dei processi culturali, sociali e decisionali inaugurati con l’era digitale si veda D. Bennato, Sociologia dei media digitali, Laterza, Roma-Bari, 2011.

57 Z. Bauman, cit.

58 C. Collodi, Le avventure di Pinocchio, Felice Paggi, Firenze, 1883.

59 F. Kafka, America, tr.it. Einaudi, Torino, 1945.

60 Hannah Arendt, Vita activa. La condizione umana, tr.it., Bompiani, Milano, 2017, p. 39. In ogni caso per una disamina si rimanda qui a R. Boesche, Theories of tyranny, from Plato to Arendt, University Park Press, Pennsylvania 1996.

61 D. Rushkoff, Presente continuo, Ed. Codice, Torino, 2014.

62 Un editor qui inteso come un garante o un tutor digitale che supporta e diffonde l’esserci comunicativo, esistenziale, economico dell’uomo contemporaneo, come se l’uomo fosse mero utente, o peggio ancora mero prodotto, tra l’altro perennemente in condizioni di minore età in senso kantiano, ovvero di un uomo bisognoso di placet da parte dei grandi provider digitali per poter esistere: infatti nella contemporaneità che impone la dittatura della perenne connessione se l’azienda o il professionista non sono su Linkedin o su Facebook, se il ristorante non è su Tripadvisor, se l’adolescente non è su Instagram, se l’ opinionista non è su Twitter, è come se non fossero affatto, come se non esistessero affatto nell’oggi digitale, nel presente continuo, dilatato e totalizzante che la Rete ha reso non solo fenomenologicamente possibile, ma anche categorico, necessario. E se una di queste grandi piattaforme del nuovo esserci digitale decidessero di cancellare (per motivi economici, o ideologici, o politici) un profilo o un’utenza, la sensazione e l’impressione collettiva sarebbero quelle di una negazione intrinseca dell’esistenza (digitale, ma anche reale).

63 J. Dewey, Democrazia ed educazione, tr.it., La Nuova Italia, Firenze, 1994, pp. 128-134.

64 J.F. Lyotard, La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano, 2014, pag. 15.

65 Agostino d’Ippona, Confessioni, XI, 27. Si può consultare l’edizione Garzanti, Milano, 1989.

66 Roberta de Monticelli, La questione del tempo, in AA.VV, Nutre la mente solo ciò che rallegra, Vita e Pensiero, Milano, 2007, pag.114

67 H. G. Gadamer, Scritti di estetica, tr. it., Aesthetica, Palermo, 2004, p.28.



Angela Arsena si occupa di ermeneutica del mito e di metodologia filosofica in Rete: ha pubblicato in riviste di Filosofia, Psicologia e Storia delle Religioni. Ha conseguito un dottorato in Epistemologia presso l'Università Pontificia Antonianum di Roma (relatore prof. Dario Antiseri). Ha partecipato come relatrice a diversi convegni. Ha vinto il premio per la ricerca Elémire Zolla nel 2012 per la voce Mistica in Dizionario Zolliano edito dall'Associazione Internazionale di Ricerca Elémire Zolla. Ha scritto: Dal Villaggio Globale alla Polis Globale, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2018, La Filosofia e la Religione di Ernest Naville, introduzione, traduzione e cura, STAMEN Edizioni, Roma, 2016; Ernest Naville e la logica dell'ipotesi, Antonianum Press, Romae, 2013.


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